La tradizione del Carnevale ad Acri
Il carnevale ad Acri si può inserire nel più generale quadro del carnevale calabrese, che presenta delle connotazioni peculiari che lo contraddistinguono da analoghe manifestazioni in altre regioni.
“Dumìnica, lunu e marti ‘un si pensa a fàri null’arti, cà si pensa a fàr’ ‘e mangiàri ca’ sun’ ‘i tri juorn’ ‘e carnulevàri”. In questa espressione, assai nota, è racchiuso il senso più pieno della festa, che coinvolgeva in maniera particolare i ceti più bassi. Si trattava di tre giorni durante i quali il mondo veniva rovesciato: addio alle preoccupazioni, non si pensava ad altro che a mangiare e bere.
Ricordo che anche gli adulti erano soliti travestirsi e girare per le case e i rioni, chiedendo cibo e, soprattutto, vino, che in quei giorni scorreva a fiumi.
Carnevale veniva personalizzato: un vecchio burlone con lunga barba, cappello, intento sempre a gozzovigliare; la sua antagonista era la Quaresima, che rimproverava costantemente Carnevale, invitandolo a desistere dagli eccessi. Il vecchio barbuto faceva orecchie da mercante, continuando a ingozzarsi fino a sentirsi male e morire. Anche la morte veniva presa a pretesto per continuare le manifestazioni. “Carnudevàri muortu” veniva esposto in una bara, allocata su un camion, con due vecchie ai lati a piangerlo. Tra coloro che hanno interpretato carnevale morto ci sono personaggi di particolare sagacia.
Carnevale era, in sintesi – fatte salve le manifestazioni dei più piccoli -, la festa dei diseredati, di coloro che durante l’anno pativano e lottavano, che in quei tre giorni vivevano la loro rivalsa. C’era un personaggio che abitava in una piccola casa nelle adiacenza della piazza dei frutti (Piazza Marconi), che, travestito con rara perizia, insieme alla moglie, faceva il giro del paese con un vaso da notte nuovo appeso al collo, dentro il quale, in ogni casa, venivano riposte cibarie varie, soprattutto polpette. La moglie aveva il compito di ballare e cantare, mentre lui suonava l’armonica a bocca. Alle sei del pomeriggio era già in preda ai fumi dell’alcool e a farne le spese era la povera consorte, che non infrequentemente veniva schernita e offesa dal marito, che ne faceva una sorta di attrazione da circo. La donna non poteva ribellarsi, pena essere cacciata di casa di notte. Una volta – erano giunti a casa nostra a cantare -, accortomi del disagio della signora, chiesi a mia madre di portarla in cucina, mentre mio padre intratteneva il marito. Sbirciai dalla porta, senza farmi vedere: la donna scoppiò in lacrime davanti a mia madre, confessando il suo disagio e le sue paure. Mia madre l’intrattenne affettuosamente, ma si trattò di una brevissima pausa. Dopo poco il marito la reclamò urlando e la donna fu costretta a riprendere il suo show.
Il significato del termine carnevale deriva dal latino “Carnem levare”, alla lettera privarsi della carne, proprio a indicare l’ultimo banchetto prima della quaresima, che si apriva col mercoledì delle ceneri. In senso più figurato, la festa era intesa dalla nostra gente come l’ultima possibilità per mangiare, bere e divertirsi prima che si aprisse un nuovo periodo di privazioni. Oggi, le mutate condizioni socio-economiche, l’affievolirsi dell’ortodossia, quindi la minore osservanza di precetti prima ritenuti inderogabili, hanno fatto sì che questa festa perdesse molto in termini di partecipazione corale e si tramutasse in una manifestazione consumistica per i più piccoli. A noi preme sottolineare, invece, la valenza che il carnevale aveva per il popolo e come quest’ultimo lo vivesse come occasione di svago nell’ambito di un anno – e di una vita – di stenti. Le lacrime che accompagnavano il carnevale defunto, il mercoledì, erano assai spesso autentiche e nascondevano un disagio profondo.
Massimo Conocchia