La tratta dei minori italiani, dal 1860, verso l’America del Nord

Siamo pronti a dimenticare che siamo stati, fino ad ieri, un popolo di emigranti volontari o forzati.

Un signore “stimabile per ingegno e coraggio”, nel 1868, scrive una lettera alla Gazzetta Ufficiale, perché si solleciti un provvedimento per evitare la tratta di minori italiani.

La lettera si dovrebbe ristampare integralmente cosa, per noi impossibile, per ovvi motivi, ma ve ne facciamo dono di alcuni tratti.

Vi si riporta la tratta di stuoli di piccoli musicanti e della loro misera vita.

Dopo il 1860: “Si aggiunge il fatto – si legge nella lettera – di aversi ora una locomozione più frequente, più facile e a miglior mercato di prima, segnatamente pei passeggieri di terza classe.

Prima del 1860 ad ogni modo non si vedevano all’estero fanciulli suonatori in età così tenera, che sembra un vero miracolo come possano dispensarsi dall’assistenza materna”.

Suonatori italiani adulti ce n’erano, in America del Nord, e qualche giornale dileggiava gli Italiani, in genere, denominandoli: “organ-grinders and monkey exibitors” (giratori d’organo ed esibitori di scimmie)!

Così avveniva la tratta: “La sola condizione commerciabile è che tali fanciulli sappiano procurare un suono qualunque da un’arpa o da un violino. L’ingaggio dura per lo più tre anni, al prezzo variante dai 15 ai 40 ducati l’anno, secondo l’abilità, l’età e la costituzione fisica dei fanciulli, dovendosi naturalmente valutare anche il danno che può derivare all’incettatore dalla probabile morte di uno di essi prima che l’affitto sia terminato. Previggenza pur troppo giustificata dal fatto che molti di quegli sventurati soccombono prima che sia loro concesso di rivedere le montagne native”.

La loro vita era un vero inferno. Lo scrivente denuncia: “se n’incontrano in tutte le strade e ad ogni ora del giorno e della notte”. Il “continuo monotono suono dei loro strumenti” diveniva fastidioso “sicché l’obolo che loro si dà è più sovente dato perché ripongano l’arpa sulle spalle, che perché continuino a toccarla. Per tale affluenza eccessiva è stato loro inibito l’adito in molti siti ove prima raccoglievano la più larga messe di largizioni, come nei carri delle strade ferrate a cavallo, e nei ferry boats che trafficano di continuo tra New York e le contrade attigue”.

Quelle misere “larve” erano subivano: “trattamenti sempre più duri da parte dei loro ricettatori, poco soddisfatti del tenue incasso giornaliero che esigono tutto intero sino all’ultimo penny, e l’essere nutriti e mantenuti con una parsimonia tale, che il più negletto degli animali domestici potrebbe vantarsi di avere un trattamento più lauto e più umano. Ogni sera, al loro ritorno in casa, sono spogliati delle loro vesti e accuratamente visitati sin nelle scarpe e nei capelli dai padroni, che hanno anche costume di attivare e promuovere tra i loro allievi uno spionaggio reciproco. Guai a colui che avesse sottratto un biglietto di soli cinque soldi! Il padrone crederebbe dovere imperioso di coscienza verso se stesso e verso gli altri aguzzini suoi colleghi, il sottoporre il delinquente issofatto ad un esemplare castigo, che si risolve sempre in colpi e battiture da furibondo”.

 Quei miseri erano costretti a girare per le strade “coperti di cenci, affranti da una fatica che rompe le loro tenere membra, pallidi per fame e per patimenti, gelando di freddo l’inverno sulla neve, arsi di febbre nei calori miasmatici della estate, soffermarsi con avido sguardo innanzi ad ogni smercio di commestibili, adocchiare ogni uscio aperto nella speranza di ottenere dei servi di casa i resti dei resti del pranzo giornaliero”.

Noi dimentichiamo tutto questo. A scuola, d’altra parte, ci hanno detto che l’emigrazione era frutta della libertà e non della speculazione di tanti, Governo compreso. Ognuno aveva il suo tornaconto e si invogliavano tanti a varcare l’Oceano convinti di far danaro facilmente, mentre si trovavano ad avere a che fare con una vita più dura, in tutti i sensi, di quella lasciata.

Giuseppe Abbruzzo

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