Salto generazionale e incomunicabilità tra padri e figli
Il problema della difficoltà del dialogo tra genitori e figli è atavico e non si ha certo la pretesa di risolverlo in una sintetica esposizione di pensieri in libertà, quale, appunto, riteniamo la nostra rubrica.
Mi piace, tuttavia, esporre la mia esperienza in proposito e, soprattutto, i miei errori, certo che possano trovare riscontro nelle analoghe storie di molti miei coetanei e – perché no? – possano servire ai ventenni di oggi a smussare molti angoli che l’irruenza degli anni verdi tende a presentare.
Mio padre, classe 1926, non aveva avuto un’infanzia semplice, come molti della sua generazione. Un’infanzia fugace di privazioni e stenti e l’imput a diventare “adulti” mentre si era ancora poco più che bambini. Non ebbe mai a recriminare per la privazione di diritti essenziali: sapeva che non c’era alternativa ed era fiero di come si era barcamenato per portare dignitosamente avanti un nucleo familiare corposo, garantendo a ciascuno, compatibilmente con i tempi e le inclinazioni di ognuno, pari dignità e diritti. Nel dopoguerra, dopo una serie di lavori saltuari, approdò in miniera: si trattava di una scelta comune a tutti coloro che avevano una famiglia numerosa. A scapito di una rapida distruzione delle vie respiratorie, garantiva una paga dignitosa. Non ricordo di avere mai affrontato il tema con mio padre. Ricordo, però, lucidamente, quando, precocemente, decise di uscirne. Erano gli anni ‘70. All’epoca ero poco più di un ragazzo e, crescendo, mi rivolgevo a lui con la superficialità e la supponenza di un giovane contestatore cui poco interessavano le scelte dei propri genitori. Lui, dal canto suo, si rivolgeva a me con la diffidenza di che vede il proprio figlio allontanarsi da quella devozione nei confronti dei padri, che, ai suoi tempi, era dovuta e da me era, invece, contestata. Lui vedeva nei suoi sacrifici una sorta di monumento cui il figlio avrebbe dovuto inchinarsi. Io ribattevo che quei sacrifici erano un obbligo per il solo fatto di avere messo al mondo dei figli. Non fu facile sciogliere il ghiaccio che si frapponeva fra l’affetto e l’incomunicabilità generazionale e, da adulto, il mio interesse si rivelò, purtroppo, tardivo per entrambi. L’affetto profondo che ci legava fu, alla fine, come una fune possente che ci tenne entrambi a galla e che, con gli anni, ci permise di superare quei contrasti e quelle divergenze di vedute. Ci rendemmo conto, sul crepuscolo della sua esistenza, che molte incomprensioni si sarebbero potute evitare se solo l’intransigenza giovanile mi avesse permesso di riconoscergli quegli enormi sacrifici, che lui, d’altra parte, aveva fatto volentieri e di cui non si è mai pentito.
Dall’antichità classica al postmoderno, la letteratura ha da sempre riproposto i modi e le stagioni di questa conflittualità culturale, che ha modificato modelli educativi, soggettività e forme di interposizioni personali tra individui di generazioni diverse. Da Telemaco che attende il ritorno del padre a Oreste che uccide la propria madre, dai guerrieri della tradizione cavalleresca al re Lear che disconosce la figlia, e cosi via.
Questo tipo di contrasto, negli anni 70’ e 80’, era quasi la regola e chi scrive non è certo sfuggito a quello che era un habitus diffuso. Gli anni, le esperienze, l’assenza del mio interlocutore da tempo, mi hanno indotto a condividere questi pensieri. Non sono mai stato assertore del fatto che i figli ereditino tutto dai genitori; credo di avere preso alcuni pregi e i pochi difetti che mio padre aveva. Di quei pregi, oggi, gli sono grato, così come non so che darei per avere, per un’ultima fugace occasione, la possibilità di parlargli e sorridere di quell’intransigenza che, oltre che sintomo d’immaturità da parte mia, era basata su un falso presupposto, ossia la supponenza di essere autosufficienti e bastare sempre a se stessi. Oggi vedo con lucidità quanto quell’uomo volesse esprimermi, con in suoi modi, i suoi silenzi, quanto fosse grande l’affetto che ci legava e vedo, altrettanto chiaramente, come la mia supponenza e intransigenza rappresentasse, in qualche occasione, un ostacolo inutile all’avvio di un dialogo sereno. Solo oggi mi rendo conto di quante occasioni perse e di quanto tempo sprecato dietro a discussioni senza senso. Subito dopo la sua morte, mi ritrovai a rileggere la bellissima poesia che Camillo Sbarbaro dedicò al padre: “Padre, se anche tu non fossi il mio padre, se anche fossi a me un estraneo, per te stesso, ugualmente ti amerei….”. Non riesco a dire quante volte ho sognato di recitargliela e di come avrei voluto che quel sogno non s’interrompesse mai.
Massimo Conocchia
Stai tranquillo, caro Massimo, la poesia di Sbarbaro non l’avrai recitata a tuo padre nella maniera classica, con parole, ma sicuramente gliela avrai “recitata” concretamente e cioè con azioni e comportamenti. Quel che conta sono i fatti e tu di fatti gliene hai recitati a piene mani!
La foto è tenerissima. Potremmo intitolarla “protezione” . Altro che versi!
Per piacere, nessun rimpianto!
Cara Franca, è vero ciò che dici: con l’agire quotidiano forse gli ho dimostrato ciò che lui si aspettava e che in qualche maniera lo ha gratificato. Resta solo l’amarezza di come gli anni verdi, l’irruenza, l’intransigenza di quella fase della vita , porti a confronti, discussioni, che ti rendi conto, crescendo, che non hanno alcun senso. Ti consoli constatando che la storia dell’umanità è costellata di questi conflitti generazionali e che forse sono il segno dei tempi che cambiano e della nostra difficoltà ad agganciarli. Grazie, come sempre, Per le tue analisi e per le parole che fanno molto bene. Ti abbraccio, massimo