V. JULIA SCRIVEVA A N. ROMANO SULL’EDUCAZIONE DEI GIOVANI
È già tanto se, in Acri, si conoscono i nomi di Vincenzo Julia e Nicola Romano, che non furono solo notevoli autori, ma educatori eccelsi. Quanto la sottolineatura fosse vera ne abbiamo avuto prova nella presentazione del saggio di Franca Azzarelli su V. Julia. La funzione di educatore era e resta, a parer nostro, uno degli aspetti fondamentali del suo impegno socio-culturale.
Non è un caso, perciò, se Julia collabora al periodico La gioventù ragguagli d’educazione e d’istruzione; come non lo è il bisogno di scambiare, su quella rivista, il suo punto di vista “Intorno alla nuova educazione dei giovani”, sotto il cui titolo apparve una lunga lettera indirizzata all’altro docente e letterato, Nicola Romano.
La lettera apre, ricordando la lettura di “un aureo libretto” del Tommaseo dal titolo Educazione letteraria e riuscita sociale o Necrologia di un anonimo. Vi si dice di un giovane d’ingegno vivace e di anima generosa. Questi, tormentato da dubbi e disinganni si suicida.
Julia ammira lo scritto e le capacità del Tommaseo, che «prorompe – scrive – in esclamazioni commoventi e compatisce ai dolori di una giovinezza traviata. Infine il valoroso scrittore dipinge la morte del giovine e pare che l’anima gli si spezzi, narrandone la fine dolorosa: ei curva la fronte dinanzi al mistero della morte, ed esclama: “Sarem noi tanto arditi da usurpare la sede di quella giustizia, che deve giudicare noi tutti e violare coi nostri sospetti il sacro limitar della morte?”».
Si rivolge, poi, a Romano: «Come tu vedi mio egregio amico, nella figura di quel giovine sta il tipo di una gioventù tormentata dal dubbio e bisognosa di fede, affannata dalla noia e pur avida di novità, tribolata dal disinganno, e pur facile a schiudere il cuore alle illusioni della vita. Pur troppo i tempi che volgono han generato noia e scetticismo, epoca di transizione com’ è la nostra, vi ribollono tutti gli elementi, vi pugnano autorità e libertà, fede e ragione, verità e paradosso di qui il dubbio desolante e mortale, che, come osserva un illustre scrittore1, annienta l’uomo e con lui le scienze e le arti, lo stato e la famiglia. La fronte della gioventù è annuvolata: essa cammina barcollando, senza badare che sotto i piedi è l’abisso. La serenità dello intelletto giovanile è contristata da false dottrine, il cuore dei giovani, ove si accolgono i più generosi affetti, è gelato dal dubbio, e quelle mani robuste che dovrebbero inalzare la novella Gerusalemme, sono quasi irrigidite».
Questa la disamina della condizione giovanile. Ed ecco la considerazione sulla quale sente il bisogno del conforto dell’amico:
«Noi siamo percossi da una grave malattia: qual è il farmaco che abbia vigore di ringiovanire le menti e commuovere i cuori? L’avvenire della società riposa in una novella e più vasta educazione intellettiva e morale: si dovrebbe far comprendere ai giovani, che la vera perfezione consiste nell’accordo completo delle umane facoltà, che l’intelletto non debbe spegnere il cuore con infeconde astrazioni, che il cuore debbe illuminare i forti concepimenti e sospingere ad opere gagliarde di civiltà».
Che fare, allora? Continuare con le teorie, che ritiene indegne “della stirpe latina eminentemente pratica ed operosa”? E si chiede e chiede:
«Qual bene si attende da un giovine, che sappia a meraviglia le categorie di Aristotile e la logica di Hegel, se poi questo giovine è morto agli affetti gentili, e non comprende la bellezza e la solennità dei doveri sociali? Non così i nostri antichi: Dante scriveva la Divina Commedia e combatteva a Campaldino; Socrate ragionava di filosofia, ed esercitava gli uffizii cittadini; Machiavelli componeva le Istorie Fiorentine, e dava consigli di pratica sociale.
Dicevo che nel procurare l’armonia delle facoltà consiste la migliore educazione sarebbe adunque necessario che la ragione si armonizzi con la fede, l’intelletto col cuore, la civiltà con la religione, la libertà con l’autorità, perocché nel dialettismo sta la vita della scienza e della società. E perché il giovine si slanci nell’avvenire è necessario che gli si predichi incessantemente l’accordo delle naturali facoltà, e che lo istitutore si adoperi vigorosamente ad attuare questa nobile armonia: è indispensabile che gl’insegni il Cristianesimo come religione di civiltà e di progresso, che gli si faccia comprendere come il Cristianesimo, nella sua universalità e nella sua purezza primitiva, abbracci, e risolva i più gravi problemi che ci travagliano, e che il Vangelo non ha mai consacrato la brutalità della forza, l’oppressione dei popoli e la tirannia. Nello accordo adunque del Cristianesimo e della civiltà sta la salute delle novelle generazioni. Questa solenne verità io vorrei che gli educatori ribadissero nella mente dei giovani: allora noi avremmo una gioventù operosa e magnanima, vigorosa d’intelletto e di cuore, che s’inchini dinanzi alla maestà della fede, ma che riconosca i diritti e la potenza della ragione. Solo in tal guisa (o ch’io m’inganni) si potrebbe guarire la mortal malattia, che ci travaglia, e rinnovate le sorgenti della vita sociale noi avremmo una letteratura nutrita di grandi pensieri e di forti affetti, una filosofia profonda, comprensiva e sociale, una religione civile ed una civiltà religiosa, ed una bella, e magnanima gioventù adempirebbe il mandato della patria e risolverebbe compiutamente lo enigma dei nostri tempi.
Son queste le idee che ho sempre nutrito intorno alla nuova educazione della gioventù, e che tu hai meco diviso nei nostri colloqui amichevoli: possano non riuscire infruttuose e sorgano istitutori che si adoprino ad attuarle con amore e con perseveranza, sarebbe così assicurato l’avvenire della società.
Conservami intanto il tuo affetto e credimi sempre l’affez. amico
Vincenzo Julia Acri, 25 ottobre 1867».
Questo era il pensiero dello Julia in quell’anno. L’abbiamo riportato per quanto detto in apertura, lasciando ogni giudizio a chi vuole.
1 [nota dell’autore] Augusto Conti nel suo bellissimo libro intitolato: I Discorsi del tempo in un viaggio d’Italia, Firenze, M. Cellini e C., 1867, L. 3, 50.
Giuseppe Abbruzzo
La lettura di Vincenzo Julia ha rappresentato per me una grande sorpresa: lei, caro Professore Abbruzzo, lo ha sempre esaltato come educatore, io lo conoscevo soprattutto come poeta. Naturalmente aveva ragione lei: la funzione di educatore in V. Julia andava al di là del suo essere poeta.
Certo l’immagine di un giovane tormentato di cui lui parla permane nel tempo e fa sentire incapaci noi e inefficaci le nostre azioni educative, visti gli esiti! E rendere concreta l’armonia delle varie facoltà, sarà pure un’utopia, ma potrebbe anche essere la migliore educazione.
Come scrive V. Julia, armonia della ragione con la fede, della mente con il cuore, della civiltà con la religione, della libertà con il rispetto delle regole significherebbe equilibrio salvifico. Capisco, comunque, le difficoltà ad attuare un simile percorso, soprattutto per l’esistenza di educatori tutti protesi verso metodi innovativi piuttosto che verso sistemi essenziali ed equilibrati. Ma si potrebbe tentare, o ritentare se si era già fatto, ci si potrebbe ritrovare di fronte un giovane quanto meno più pacato e più propenso alle regole dell’equilibrio. Grazie, Prof. Abruzzo!