In Calabria si nasceva prete
Nel bicentenario della nascita di Vincenzo Padula non possiamo non soffermarci su alcuni aspetti della sua vita.
Vincenzo Padula, nell’intervenire su Il Bruzio con l’articolo Chiusura delle scuole primarie e secondarie del Seminario di Cosenza, dà una serie di notizie sul come e perché si diveniva prete in Calabria.
In alcune parti sembra vi si riporti una riflessione sulla sua condizione di prete.
Scrive: “I Seminaristi non son preti, ma piccioni di prete; possono oggi o domani pentirsi, possono scegliere altra professione, ed è giusto che la provvidenza dello Stato pensi anticipatamente a rimuovere gli ostacoli, che chiuderebbero a loro ogni avvenire. O forse perché il Vescovo ha strozzato con una fetta di zucca bianca la gola di un giovinotto se ne deve credere assoluto padrone qual d’un cane, che si lega al cortile con collare di ferro?”.
Il contenzioso fra Chiesa cosentina e Ministero, precisa Padula, non è giusto. Lo sarebbe se “il Ministro avesse imposto i maestri da scegliere, i libri da adottare, noi a nome della libertà della Chiesa e dell’insegnamento avremmo gridato ai Vescovi: State fermi non cedete d’un pollice. Ma il Ministro non impone i libri dell’insegnamento, ma la materia dell’insegnamento”.
Ritorniamo all’assunto iniziale. Per essere ammessi al seminario “i teneri giovinetti (…) vi furono ammessi dopo che provarono con documenti legali la loro vocazione indeclinabile al Sacerdozio”
Il nostro considera: “Ma, Dio buono, i documenti legali possono provare l’esistenza di ciò ch’è invisibile, la grazia? E se provano che esiste al presente, all’età di 10, 11, 12 anni, possono provare che debba esistere in appresso? E giovinotti di 10, 1l, 12 anni, possono avere una indeclinabile vocazione? I documenti legali provano non la vocazione del figlio, ma la inclinazione ed i calcoli ignobili del padre, perché in Calabria il prete non si fa prete, ma nasce prete”.
Ecco il risentimento di Padula verso il padre, che altrove maledice, unitamente a Luigi Giannone, che gli aveva suggerito di farne un prete.
All’affermazione: “in Calabria il prete non si fa prete, ma nasce prete”, aggiungiamo per calcolo paterno, perché si diceva che, per una famiglia, il prete era una ricchezza. Dimenticavano, però, una necessaria aggiunta: se avessero potuto avere la “gestione” d’una parrocchia dal ricco patrimonio.
Padula, pur meritandola, una parrocchia non l’ebbe mai!
Un’altra precisazione dimostra come il nostro concittadino fosse in dissenso con la Chiesa. È contenuta in queste parole:
“Al prete Dio avea lasciato il patrimonio dell’idee, e i Vescovi gliel tolsero; la luce, e gliel’estinsero, l’arma divina della ragione, e lo disarmarono. – E questo vostro metodo seguito da tutt’ i Vescovi italiani ha fatto dei preti italiani gli ultimi dei preti. Il prete inglese può scrivere le conferenze del Wiseman, il prete francese può scrivere il Cristo del Roselly, ma il prete italiano no ‘l può”.
Giuseppe Abbruzzo